Descrizione
All'alba quando spunta il sole, là nell'Abruzzo tutto d'or, le prosperose campagnole, discendono le valli in fior... se canti la tua voce è un'armonia di pace che si confonde e dice se vuoi vivere felice devi vivere quaggiù...
(Reginella campagnola, canzone popolare di E. Di Lazzaro – C. Bruno)
Come per la vendemmia, la raccolta delle olive, la mietitura e la trebbiatura, sebbene impregnate di sudore e fatica, prima dell'avvento delle macchine agricole, rappresentavano un momento importante di condivisione. Le famiglie non erano mai sole negli impegni gravosi del lavoro agricolo, amici, vicini e parenti partecipavano attivamente a giornate dense di fatica, connotate da antiche melodie, ilarità, profumi e sapori. Alle famiglie più povere era concesso di "spigolare": uomini, donne e bambini poteva raccogliere le spighe cadute, se autorizzati dai proprietari delle tenute: un lavoro faticoso che consentiva però alle famiglie meno abbienti di procurarsi grano sufficiente per superare l'inverno.
Quel grano seminato prima che la natura andasse in letargo, prima di "Capetiempe" quel tempo che rappresenta la conclusione del ciclo agricolo, attendeva le operose mani che avrebbero composto le "manoppie", i covoni da trasportare nell'aia e sistemare in grandi mucchi, le "casarce", per poi essere conservati nelle cantine una volta separati i chicchi di grano dalle spighe. Si levavano con grande enfasi tra il profumo del grano le "carelle" o "incanate", i canti rituali definiti da Gennaro Finamore come canti "di tono solenne, tanto che si avverte il contrasto tra l'intonazione grave della melodia e le parole gaje scherzose ed anche scurrili"
Alle 7, alle 10, a mezzogiorno e alle quattro del pomeriggio le donne scendevano nei campi di grano a ristorare l'arsura e la fame dei contadini intenti al lavoro con le "canestre" (ceste): cumbriunzun, rimpizze, svivitelle, pasta al sugo di papera muta, bucatini alla trescatora, sarde fritte, pipindune e ove, formaggio, salame, pollastri e papere, vino stumbrato trasportato nei trufoli erano le pietanze tipiche da consumare all'ombra degli alberi.
Il vino stumbrato si otteneva mescolando una parte di mosto cotto con cinque di crudo e accompagnava le grandi bevute di acqua e limone per i più assetati. Al mattino presto le donne insieme a grandi fette di pane fatto in casa, prosciutto, salame, formaggio, ventricine, recavano perlopiù i dolci tradizionali della mietitura e della trebbiatura, i Cumbriunzun e le rimpizze, cucinati nel forno a legna, da gustare mentre si era intenti al lavoro, con relativa fretta, prima dell'incombere del grande caldo accompagnati con vino e acqua. I cumbriziun’ sono dei dolci soffici e morbidi dalla tipica forma tonda e dalla superficie liscia preparati con farina, uova, zucchero, olio di oliva, latte, ammoniaca e limone, versate con un cucchiaio in una teglia senza far subire la lievitazione , le rimpizze hanno la tipica forma del maritozzo e presentano caratteristici rilievi concentrici in superficie derivanti dalla lavorazione artigianale dell’impasto, dal colore bruno dorato dalla lunga lievitazione, impastate con uova, olio di oliva, lievito, zucchero, latte e semi di anice. Nel pomeriggio, intorno alle sedici, era la volta della "svivitella" da inzuppare nel vino stumbrato, una sorta di ciambellone preparato con farina, uova, latte e limone grattugiato
Lo "sdjuno" vero e proprio giungeva atteso intorno alle dieci del mattino e rappresentava la prima vera e propria pausa che interrompeva il lavoro dei campi. All'ombra degli alberi il pane casereccio accompagnava formaggio pecorino, sarde fritte, salumi vari e "Pipindune e ove", uno dei più gustosi e semplici piatti della tradizione contadina.
A mezzogiorno però, sul lino ruvido e profumato di bucato, tessuto da mani operose, del "mantile"(la tovaglia) si sistemava la pasta al "ragù di papera", sfumato col Montepulciano d’Abruzzo, profumato di alloro, rosmarino, e peperone dolce, cucinato lentamente e servito come condimento per le “sagne a pèzze” piccoli fazzoletti irregolari di sfoglia impastata con farina di grano duro e con farina grezza, o le ‘lahanelle’, una sorta di tagliatelle irregolari. Altro piatto principe i "bucatini della tresca", conditi con sugo di fegatini e “vriscili “, le interiora del pollo cucinato intero nel forno a legna e poi versati nel sugo di pomodoro fresco.
Non mancavano polli e pollastrelle cucinati ad arte e insalate di pomodoro a pera o a cuore di bue rese più gustose dal pregiato tortarello o cetrangolo abruzzese, antica varietà colturale, chiamato anche "tortello nero" o "cocomero nero" che attualmente agricoltori custodi del territorio di Farindola cercano di mantenere e riprodurre che si raccoglie ancora immaturo e si consuma crudo alla stessa maniera del cetriolo.
A sera un grande banchetto sull'aia concludeva la giornata quando umidi, arrosti, contorni arricchivano l'interminabile menù. Fino a tardi, nonostante la stanchezza, la gioia del raccolto animava grandi e piccini al ritmo di ddu bbotte e ciaramelle, saltarelle, quadriglie e stornelli a dispetto che ancora rivivono nelle rievocazioni della trebbiatura che a fine luglio anima le campagne abruzzesi.