In Abruzzo non c’è che due stagioni: l’estate e l’inverno. La primavera è nevosa e ventosa come l’inverno e l’autunno è caldo e limpido come l’estate. L’estate comincia in giugno e finisce in novembre. I lunghi giorni soleggiati sulle colline basse e riarse, la gialla polvere della strada e la dissenteria dei bambini, finiscono e comincia l’inverno. La gente allora cessa di vivere per le strade…
Così si apre il racconto “Inverno in Abruzzo” della scrittrice Natalia Ginzburg, scritto a Roma nel 1944 e pubblicato sul settimo numero della rivista Aretusa. Nel racconto, che poi aprirà la raccolta del 1962 Le Piccole Virtù, Natalia Ginzburg ritorna con amarezza e nostalgia sugli anni trascorsi in confino a Pizzoli, in provincia dell’Aquila.
Ci sono inverni che sono più inverni di altri. Senza ombra di dubbio, per Natalia e Leone Ginzburg, gli inverni passati in Abruzzo tra il 1940 e il 1943 furono tra i più freddi e solitari. I due intellettuali, tra i più emblematici della prima metà del XX secolo italiano, di origini ebraiche e dichiaratamente oppositori del regime fascista, furono condannati al confino il giorno dopo lo scoppio del secondo conflitto mondiale e accompagnati dai carabinieri fino alle soglie di Pizzoli, a 15 km dal capoluogo abruzzese e a poco più di 100 km dalla capitale.
Abruzzo, terra di confino
L’Abruzzo è stata una terra di confino più moderata rispetto alle lontanissime Ustica, Gagliano o Lipari, ma non meno rude e isolata. Il racconto di Natalia Ginzburg, scritto dopo la nascita della sua terza figlia all’ospedale di L’Aquila, dopo il rientro a Roma nell’agosto del ’43, dopo l’incarcerazione e la morte tragica di Leone, ci permette di intravedere la nostra regione all’epoca con gli occhi di chi aveva sempre vissuto in città una vita lontana da quella degli abitanti dell’Appennino.
La scrittrice racconta il freddo dei luoghi, le strane abitudini dei loro abitanti, la solitudine e la rabbia della condizione di esiliati, che talvolta esplode ingiustamente anche contro gli stessi abitanti di Pizzoli:
Quando la prima neve cominciava a cadere, una lenta tristezza s’impadroniva di noi. Era un esilio il nostro: la nostra città era lontana e lontani erano i libri, gli amici, le vicende varie e mutevoli di una vera esistenza. Accendevamo la nostra stufa verde, col lungo tubo che attraversava il soffitto: ci si riuniva tutti nella stanza dove c’era la stufa, e lì si cucinava e si mangiava, mio marito scriveva al grande tavolo ovale, i bambini cospargevano di giocattoli il pavimento. Sul soffitto della stanza era dipinta un’aquila: e io guardavo l’aquila e pensavo che quello era l’esilio. L’esilio era l’aquila, era la stufa verde che ronzava, era la vasta e silenziosa campagna e l’immobile neve.
Pizzoli, limbo dell’esilio e luogo di pace
Le genti incrociate per strada sembrano avere tutte lo stesso profilo alieno, prima di avere imparato a conoscere loro e i focolari delle loro case. Con il tempo però, prendono forma Vincenzina, Annunziata, Addolorata e Secondina. Prende forma Crocetta, donna a servizio della famiglia Ginzburg nel periodo del confino, che prepara sagnoccole con “volontà imperiosa”. Nella quotidianità di questi abitanti si riflette, come in uno specchio, l’assurdità della condizione storica e umana della coppia. Tenuti lontani da casa da un decadente regime, assistono ogni autunno alla partenza degli uomini del posto nei luoghi del loro esilio stagionale, verso Sulmona, Terni o la stessa Roma, in uno scambio di indirizzi ancora più doloroso per la loro prossimità.
I paesaggi innevati tutt’intorno e la pace di questi luoghi remoti, oltre al dramma dell’esilio, vogliono anche dire una parentesi di vita svuotata dalla guerra quotidiana e dalla sua violenza. Vogliono dire una strana felicità nostalgica e impotente, dove i bambini crescono giocando nei boschi e rubando le arance dai cesti del negoziante Girò, senza ricordare Roma, né i suoi palazzi e la sua storia, né l’identità paterna o il marchio dell’intelletto genitoriale. Pizzoli diventa talvolta il limbo dell’esilio, talvolta una parentesi leggera.
Il tempo della scrittura
Ma è con il senno di poi che la scrittrice scrive e solo con il senno di poi saprà che le stagioni passate nelle regioni più remote dell’Appennino abruzzese sono state le ultime in compagnia di suo marito, le ultime di vita per lui. I ricordi allora prendono una nota dolce, velati però dall’amarezza dell’incoscienza propria di ogni uomo:
C’è una certa monotona uniformità nei destini degli uomini. Le nostre esistenze si svolgono secondo leggi antiche ed immutabili, secondo una loro cadenza uniforme ed antica. I sogni non si avverano mai e non appena li vediamo spezzati, comprendiamo a un tratto che le gioie maggiori della nostra vita sono fuori della realtà. Non appena li vediamo spezzati, ci struggiamo di nostalgia per il tempo che fervevano in noi. La nostra sorte trascorre in questa vicenda di speranze e di nostalgie. Mio marito morì a Roma nelle carceri di Regina Coeli, pochi mesi dopo che avevamo lasciato il paese. Davanti all’orrore della sua morte solitaria, davanti alle angosciose alternative che precedettero la sua morte, io mi chiedo se questo è accaduto a noi, a noi che compravamo gli aranci da Girò e andavamo a passeggio nella neve. Allora io avevo fede in un avvenire facile e lieto, ricco di desideri appagati, di esperienze e di comuni imprese. Ma era quello il tempo migliore della mia vita e solo adesso che m’è sfuggito per sempre, solo adesso lo so.
E’ possibile leggere il testo integrale di Inverno in Abruzzo di Natalia Ginzburg qui: www.ilcapoluogo.it/2019/01/23/natalia-ginzburg-a-pizzoli-il-tempo-migliore-della-mia-vita/
Francesca Vinciguerra, Abruzzo.no